Il recesso del datore di lavoro per superamento, da parte del lavoratore, del periodo di comporto ("secco" o "frazionato") costituisce una ipotesi del tutto peculiare di cessazione del rapporto di lavoro: non è dovuta nè ad un fatto dell'azienda, nè, propriamente, ad un fatto o colpa propri del lavoratore, ma piuttosto all'impossibilità di quest'ultimo di assicurare con sufficiente continuità la propria prestazione.
Essa è regolata in una norma speciale, ossia l'articolo 2110, comma 2, del Codice civile, secondo cui:
"In caso di infortunio, di malattia, di gravidanza o di puerperio, se la legge [o le norme corporative] non stabiliscono forme equivalenti di previdenza o di assistenza, è dovuta al prestatore di lavoro la retribuzione o un'indennità nella misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali [dalle norme corporative], dagli usi o secondo equità.
Nei casi indicati nel comma precedente, l'imprenditore ha diritto di recedere dal contratto a norma dell'articolo 2118, decorso il periodo stabilito dalla legge [dalle norme corporative], dagli usi o secondo equità.
Il periodo di assenza dal lavoro per una delle cause anzidette deve essere computato nell'anzianità di servizio".
La Cassazione ha evidenziato la specialità di questa norma, anche rispetto alla disciplina limitativa dei licenziamenti contenuta nelle Leggi n. 604/1966 e n. 300/1970 con le loro successive modifiche, giungendo alla conclusione, ormai consolidata, che:
- da un lato, il datore di lavoro non può unilateralmente recedere o, comunque, far cessare il rapporto di lavoro prima del superamento del limite di tollerabilità dell'assenza (cosiddetto periodo di comporto), predeterminato per legge, dalla disciplina collettiva o dagli usi, oppure, in difetto di tali fonti determinato dal giudice in via equitativa;
- dall'altro, il superamento di quel limite è condizione sufficiente di legittimità del recesso, nel senso che non è necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo nè della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, nè della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse, senza che ne risultino violati disposizioni o principi costituzionali (Cassazione, sentenza del 7 aprile 2003, n. 5413; Cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 29 marzo 1980, n. 2072, n. 2073 e 2074; 24 febbraio 1982, n. 1168; 8 marzo 1983, n. 1726; 7 giugno 1983, n. 3909; 13 giugno 1983, n. 4068; 26 marzo 1984, n. 1973; 21 novembre 1984, n. 5968; 4 maggio 1985, n. 2806; 11 giugno 1986, n. 3879; 2 aprile 1987, n. 3213; 12 giugno 1995, n. 6601; 13 dicembre 1999, n. 13992; 14 dicembre 1999, n. 14065).
Sul termine di 60 giorni per impugnare il licenziamento
Una importante conseguenza della specialità della norma sopra indicata è che, in caso di licenziamento per superamento del periodo di comporto, non si applica il termine decadenziale di sessanta giorni per impugnarlo.
La giurisprudenza ha già riconosciuto, infatti, che il termine di decadenza in questione non è applicabile necessariamente in tutti i casi di recesso da parte del datore.
Ciò in quanto il termine di sessanta giorni, previsto dall'articolo 6 della Legge n. 604/1966, deroga al principio generale di cui agli articoli 1421 e 1422 del Codice civile, secondo il quale, salvo diverse disposizioni di legge, la nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse e l'azione per farla dichiarare non è soggetta a prescrizione.
Ne consegue che, sotto questo profilo, la disposizione di cui al citato articolo 6 della Legge n. 604/1966 è da considerarsi di carattere eccezionale e non è perciò applicabile, neanche in via analogica, ad ipotesi di nullità del licenziamento che non rientrino nella previsione della medesima Legge n. 604/1966.
Il termine di sessanta giorni non è quindi applicabile ai seguenti licenziamenti:
- licenziamento previsto dalla Legge n. 7 del 1963, articolo 1 (sul divieto di licenziamento delle lavorataci per causa di matrimonio);
- licenziamento previsto dalla Legge n. 1204 del 1971, articolo 2 (sulla tutela delle lavorataci madri);
- licenziamento non intimato per iscritto e perciò privo della forma richiesta ad substantiam dalla legge;
- licenziamento previsto dalla Legge del 14 agosto 2008, n. 21702 (licenziamento motivato con il superamento dei limiti di età ed il possesso dei requisiti pensionistici nel caso in cui il prestatore abbia esercitata l'opzione per la prosecuzione dei rapporto ai sensi della L. 29 dicembre 1990, n. 407, art. 6).
Esigenze logiche di coerenza sistematica impongono di estendere il medesimo principio della non applicabilità della norma di carattere eccezionale contenuta nella Legge n. 604 del 1966, articolo 6 a tutte le ipotesi di recesso datoriale in cui non sia applicabile quella legge.
Anche il recesso per superamento del periodo di comporto rappresenta una forma speciale di cessazione del rapporto di lavoro, come tale non disciplinata dalla legge di carattere generale Legge n. 604/1966, che è non applicabile alla fattispecie, ma dall'articolo 2110 del Codice civile.
Di conseguenza deve essere applicato anche in questo caso il medesimo criterio, affermando il principio di diritto secondo cui "dato che il licenziamento per superamento del periodo di comporto non è regolato dalla L. n. 604 del 1966, e successive modificazioni, ma dall'art. 2110 c.c., comma 2, in questa ipotesi l'impugnazione da parte del prestatore di lavoro non è soggetta al termine di decadenza stabilito dall'art. 6 della stessa legge", ma solamente ai termini ordinari di prescrizione (Cassazione, sentenza del 28 gennaio 2010, n. 186).