La Corte di Cassazione (sentenza n. 26476/2007) ha affrontato la vicenda di una donna separata che, vistasi revocare l'assegnazione della casa familiare in seguito ad un suo trasferimento con il figlio affidatole in una città diversa per motivi di lavoro, ha proposto ricorso sostenendo di continuare ad utilizzare l'abitazione assegnatale come casa principale.
La Corte ha respinto il ricorso affermando che "l'assegnazione della casa coniugale al coniuge affidatario di un figlio minore o convivente con un figlio maggiorenne incolpevolmente non autosufficiente, si giustifica in quanto sia finalizzata ad assicurare l'interesse della prole alla permanenza nell'ambiente domestico in cui essa è cresciuta; evenienza, questa, che postula la destinazione dell'immobile a stabile abitazione del coniuge e del figlio".
Tale principio si ricava dall’articolo 6, comma 6, della Legge n. 898/1970, che "consente il sacrificio della posizione del coniuge titolare di diritti reali o personali sull'immobile adibito ad abitazione familiare, mediante assegnazione di siffatta abitazione in sede di divorzio all'altro coniuge, solo alla condizione dell'affidamento a quest'ultimo di figli minori o della convivenza con esso di figli maggiorenni ma non ancora provvisti, senza loro colpa, di sufficienti redditi propri, laddove, in assenza di tali condizioni, coerenti con la finalizzazione dell'istituto alla esclusiva tutela della prole e del relativo interesse alla permanenza nell'ambiente domestico in cui essa è cresciuta, l'assegnazione medesima non può essere disposta in funzione integrativa o sostitutiva dell'assegno divorzile, ovvero allo scopo di sopperire alle esigenze di sostentamento del coniuge ritenuto economicamente più debole, a garanzia delle quali è destinato unicamente l'assegno anzidetto, onde la concessione del beneficio in parola resta subordinata agli imprescindibili presupposti sopra indicati".