Cassazione Penale, sentenza del 7 ottobre 2013
La Cassazione ha escluso la sussistenza del reato di appropriazione indebita a carico del datore di lavoro che non versa al dipendente emolumenti per indennità di malattia e assegni per il nucleo familiare (Cassazione, sentenza del 7 ottobre 2013, n. 41162).
Ad avviso della Corte il mancato versamento degli emolumenti al dipendente costituisce un mero inadempimento contrattuale che non può integrare il delitto di appropriazione indebita ("il datore di lavoro si limita a non versare al lavoratore una somma di denaro che sarebbe dovuta, ma in nessun modo si appropria indebitamente di beni del lavoratore").
Affinchè si abbia appropriazione indebita, non è sufficiente la semplice contestazione che il datore di lavoro non versi quanto dovuto al lavoratore, ma è invece necessaria la (più complessa) contestazione del fatto che il datore di lavoro trattenga le somme indebitamente portate a conguaglio in relazione a prestazioni di cui si è sostanzialmente riconosciuto debitore per conto dell'ente previdenziale e corrispondenti a somme di denaro determinate nel loro ammontare e già fatte figurare come erogate al lavoratore (in senso analogo: Cassazione, sentenza n. 18762/2013, secondo cui non risponde del reato di truffa ai danni dell'INPS l'imprenditore che omette di versare l'indennità di malattia al lavoratore e tuttavia denuncia la sua posizione debitoria nel modello DM10. L'imprenditore risponderà, al più, di appropriazione indebita nei confronti del lavoratore, se le somme sono comunque portare a conguaglio dall’INPS).
Al riguardo va richiamato l'orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, secondo cui allorché il datore di lavoro si limiti a esporre dati e notizie false in sede di denunce obbligatorie, è configurabile il reato di cui all'articolo 37 della Legge n. 689/1981 (evasione contributiva) e non il diverso reato di truffa, per il quale, oltre alle false dichiarazioni, devono sussistere artifici e/o raggiri di altra natura.
Tali raggiri potrebbero ravvisarsi ove all'INPS fosse simulata la situazione all'origine del debito portato a conguaglio.
Allorché, invece, la discordanza tra la situazione rappresentata all'ente previdenziale e quella reale riguardi solo l'effettiva erogazione di somme che l'ente è tenuto a corrispondere al lavoratore tramite il datore di lavoro e quest'ultimo sostanzialmente riconosca il suo obbligo di corrisponderle (pur non avendole di fatto, ancora, corrisposte) nei confronti dell'INPS, il datore di lavoro sicuramente realizza (o, quanto meno, pone in essere atti idonei a realizzare) l'ingiusto profitto del conguaglio delle prestazioni che assume di aver anticipato, ma non determina alcun danno all'ente.
Il lavoratore, infatti, non potrebbe che rivolgersi al datore di lavoro per ottenere quanto gli spetta avendo l'INPS, attraverso il conguaglio, adempiuto il suo obbligo.
Sotto questo profilo il reato di truffa non sussiste, giacché in questo delitto, mentre il requisito del profitto ingiusto può comprendere in sé qualsiasi utilità, incremento o vantaggio patrimoniale, anche a carattere non strettamente economico, l'elemento del danno deve avere necessariamente contenuto patrimoniale ed economico, consistendo in una lesione concreta e non soltanto potenziale che abbia l'effetto di produrre - mediante la "cooperazione artificiosa della vittima" che, indotta in errore dall'inganno ordito dall'autore del reato, compie l'atto di disposizione - la perdita definitiva del bene da parte della stessa (Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 1/1998).