L'impresa familiare di cui all'articolo 230 bis del Codice civile appartiene solo al suo titolare.
I familiari partecipanti all'impresa hanno solamente diritto ad una quota degli utili, e ciò anche nel caso in cui uno dei beni aziendali sia di proprietà di alcuno dei familiari.
Conseguentemente, i poteri di gestione e di organizzazione del lavoro, ivi compreso quello di decidere la cessazione dell'impresa, spettano unicamente al titolare, che solo riveste la qualifica di imprenditore (Cassazione, sentenza del 20 giugno 2003, n. 9897).
Ne deriva che, in sede di ripartizione degli utili in favore dei familiari compartecipanti non deve tenersi conto degli incrementi del capitale nè delle spese del relativo ammortamento; d'altra parte, nella quantificazione dell'apporto lavorativo, il giudice può ben diversificare quello dell'imprenditore, ove più gravoso per le maggiori responsabilità assunte, da quello del familiare che ha prestato la propria attività in posizione di subordinazione (Cassazione, sentenza del 6 marzo 1999, n. 1917).
Il diritto alla partecipazione degli utili dell'impresa, ai beni acquistati con essi e agli incrementi sono determinati in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato.
La maturazione del diritto agli utili dell'impresa formale, secondo concorde giurisprudenza, dalla quale decorrono anche rivalutazione e interessi ai sensi dell'articolo 429 del Codice di procedura civile, coincide con la cessazione dell'azienda medesima o della collaborazione del singolo partecipante, salvo l'ipotesi di accordo tra partecipanti per la distribuzione periodica degli utili (Cassazione, sentenza del 23 giugno 2008, n. 17057; Cassazione, sentenza del 22 ottobre 1999, n. 1192; Cassazione, sentenza del 2 aprile 1992, n. 4057).