Secondo il Consiglio di Stato è illegittimo il diniego di rilascio del permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato motivato dalla mancanza di un reddito minimo idoneo al suo sostentamento sul territorio nazionale laddove sussista un rapporto di convivenza evidente e dichiarato, e questo nonostante la sostanziale natura fittizia del rapporto di lavoro - nella specie, di collaborazione domestica - (Consiglio di Stato, sentenza del 31 ottobre 2017, n. 5040).
L'esistenza di un rapporto di convivenza, infatti, avrebbe dovuto onerare la Questura a valutare, ai sensi dell'articolo 5, comma 9, del Decreto Legislativo 25 luglio 1998, n. 286, il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi familiari ai sensi dell'articolo 30, comma 1, lettera b), dello stesso Decreto.
Tale disposizione, infatti, seppure introdotta per regolare i rapporti sorti da unioni matrimoniali, non può non applicarsi, in base ad una interpretazione analogica imposta dall'articolo 3, comma 2, della Costituzione (principio di uguaglianza), anche "al partner con cui il cittadino dell'Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata con documentazione ufficiale", secondo la formula prevista, seppure in riferimento al diritto di soggiorno di un cittadino di uno Stato membro UE dei suoi familiari in un altro Stato membro, l'articolo 3, comma 2, lettera b), del Decreto Legislativo 6 febbraio 2007, n. 30.
Secondo il Consiglio di Stato, tale conclusione non risponde solo ad un fondamentale principio di eguaglianza sostanziale, ormai consacrato a livello di legislazione interna dall'articolo 1, comma 36, Legge 20 maggio 2016, n. 76, sulle convivenze di fatto tra "due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un'unione civile", ma anche alle indicazioni provenienti dalla Corte europea dei diritti dell'uomo.
Quest'ultima, infatti, ha chiarito che la nozione di "vita privata e familiare", di cui all'articolo 8, paragrafo 1, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo include non solo le relazioni consacrate dal matrimonio, ma anche le unioni di fatto nonché, in generale, i legami esistenti tra i componenti del gruppo designato come famiglia naturale.
Pertanto, proprio in virtù della presenza di rapporti affettivi (di natura eterosessuale od omosessuale), l'eventuale applicazione di una misura di allontanamento o di diniego di un permesso di soggiorno è in grado, secondo la Corte di Strasburgo, di provocare un sacrificio sproporzionato del diritto alla vita privata e familiare per il soggetto portatore dell’interesse (Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza del 4 dicembre 2012, ricorso n. 31956/05, Hamidovic c. Italia, in particolare paragrafo 37).
Il Consiglio di Stato ha aggiunto inoltre che la circostanza che l'attuale legislazione in materia di permessi di soggiorno non sia stata ancora adeguata o comunque ben coordinata alle riforme introdotte dalla Legge n. 76/2016 sulle unioni civili e di fatto, consentendo il rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari, di cui all'articolo 30, comma 1, lettera b), del Decreto Legislativo n. 286/1998, anche al convivente straniero di cittadino italiano, purché ne ricorrano le condizioni, formali e sostanziali, ora previste dalla stessa Legge n. 76/2016 (e, in particolare, dall'articolo 1, commi 36 e 37), non osta all'applicazione mediata, anche in via analogica, degli istituti previsti dalla legislazione in materia di immigrazione per le unioni matrimoniali e, quindi, dello stesso articolo 30 citato, e ciò per la forza, essa immediata, di principi costituzionali ed europei, la cui cogenza prescinde dalla normativa sopravvenuta della medesima Legge n. 76/2016 e dalle conseguenti disposizioni di attuazione e/o coordinamento.