Nel diritto civile, la comunione è la situazione per la quale la proprietà o un altro diritto reale spetta in comune a più persone.
È regolata dagli articoli 1100 e seguenti del codice civile.
Quando il diritto in comunione è quello di proprietà, si parla anche di comproprietà.
Si distinguono tre diverse categorie di comunione:
- comunione volontaria (dipendente dalla volontà dei partecipanti; esempio: più persone comprano insieme un bene)
- comunione incidentale (non dipendente dalla volontà dei partecipanti; esempio: più persone ricevono un bene in eredità)
- comunione forzosa (alla quale non ci si può sottrarre; esempio: condominio degli edifici)
È possibile per ciascun comunista chiedere lo scioglimento della comunione e, quindi, la divisione del bene comune.
Il procedimento di scioglimento della comunione è regolato dal codice di procedura civile (articoli dal 784 al 791).
Si discute se tale procedimento abbia natura dichiarativa o costitutiva.
La posizione della dottrina
Parte della dottrina riconduce il procedimento di scioglimento della comunione ad un'attività meramente dichiarativa.
Ciò in quanto, con lo scioglimento, non si costituisce alcun nuovo diritto, ma si dà atto di una posizione di titolarità pro quota già in vigore per ciascuno dei condividenti fin dal momento in cui è sorta la comunione.
Ne consegue che la divisione produce effetti sin dal momento in cui è sorta la comunione.
In proposito, infatti, l'articolo 757 del codice civile, in materia di divisione dell'eredità, prevede: "Ogni coerede è reputato solo e immediato successore in tutti i beni componenti la sua quota o a lui pervenuti dalla successione, anche per acquisto all'incanto, e si considera come se non avesse mai avuto la proprietà degli altri beni ereditari".
Un'altra parte della dottrina ritiene, invece, che la divisione abbia natura costitutiva.
La divisione, infatti, comporta, secondo questa tesi, la modificazione della realtà giuridica e la creazione di un nuovo diritto.
La posizione della giursprudenza
La giurisprudenza prevalente ritiene la natura dichiarativa della divisione (Cassazione, sentenza del 16 marzo 1961, n. 590; Cassazione, sentenza del 4 gennaio 1969, n. 8; Cassazione, sentenza del 13 febbraio 1976, n. 468; Cassazione, sentenza del 10 novembre 1976, n. 4131; Cassazione, sentenza del 16 febbraio 1983, n. 1175).
In proposito, con particolare riferimento alla divisione ereditaria, ciascun coerede, dopo la formazione delle porzioni e la determinazione dei beni componenti le quote, subentra soltanto nei rapporti giuridici relativi ai beni compresi nella quota a lui attribuita (Cassazione, sentenza del 16 luglio 1973, n. 2066).
La Cassazione ha precisato, con sentenza del 24 luglio 2000, n. 9659, che il principio della natura dichiarativa della sentenza di divisione opera esclusivamente in riferimento all'effetto distributivo, per cui ciascun condividente è considerato titolare, sin dal momento dell'apertura della successione, dei soli beni concretamente assegnatigli ed a condizione che si abbia una distribuzione dei beni comuni tra i condividenti e che le porzioni a ciascuno attribuite siano proporzionali alle rispettive quote.
Tale principio non opera, invece, quando ad un condividente sono assegnati beni in eccedenza rispetto alla sua quota, in quanto rientranti nella quota altrui. La sentenza di divisione produce, in questo caso, effetti costitutivi (Cassazione, sentenza del 29 aprile 2003, n. 6653, che esclude che la sentenza abbia carattere dichiarativo allorquando la divisione sia stata sciolta attribuendo il bene indivisibile al maggior quotista ex articolo 720 del Codice civile).