In materia di stupefacenti, il D.P.R. n. 309/90 sanziona penalmente "chiunque, senza l'autorizzazione di cui all'articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope" (articolo 73, comma 1, del D.P.R. n. 309/90).
In particolare è prevista la pena della reclusione da sei a venti anni e la multa da euro 26.000 a euro 260.000.
Queste pene sono aumentate se ricorre l'aggravante dell'ingente quantità, prevista dall'articolo 80, comma 2, del D.P.R. n. 309/90 ("Se il fatto riguarda quantità ingenti di sostanze stupefacenti o psicotrope, le pene sono aumentate dalla metà a due terzi").
L'aggravante dell'ingente quantità non solo comporta un aumento della pena, ma anche ulteriori conseguenze sfavorevoli per l'imputato/indagato con riferimento all'ampliamento dei termini di custodia cautelare, all'ampliamento dei termini di durata massima delle indagini preliminari, all'inasprimento del trattamento penitenziario.
Inoltre, è stata prevista l'esclusione dall'indulto concesso con legge 31 luglio 2006, n. 241.
Il problema è stabilire quando ricorre l'ingente quantità.
In particolare la giurisprudenza ha sollevato la questione se, per il riconoscimento dell'aggravante speciale dell'ingente quantità nei reati concernenti il traffico illecito di sostanze stupefacenti, si debba far ricorso al criterio quantitativo, con predeterminazione di limiti ponderali per tipo di sostanza, ovvero debba aversi riguardo ad altri indici che, al di là di soglie quantitative prefissate, valorizzino il grado di pericolo per la salute pubblica, derivante dallo smercio di un elevato quantitativo, e la potenzialità di soddisfare numerosi consumatori per l'alto numero di dosi ricavabili.
Sul punto si è espressa la Cassazione a Sezioni Unite la quale ha stabilito il seguente principio di diritto: "L'aggravante della ingente quantità, di cui al comma 2 dell'art. 80 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, non è di norma ravvisabile quando la quantità sia inferiore a 2.000 volte il valore massimo in milligrammi (valore-soglia), determinato per ogni sostanza nella tabella allegata al d.m. 11 aprile 2006, ferma restando la discrezionale valutazione del giudice di merito, quando tale quantità sia superata" (Cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 20 settembre 2012, n. 36258).
La Cassazione ha anche affrontato la questione se non si sia in presenza di una previsione normativa priva di quel livello di determinatezza e tassatività che, trattandosi di disposizione sanzionatoria penale, deve necessariamente sussistere perché sia superato il giudizio di compatibilità costituzionale.
Il principio di determinatezza trova il suo fondamento costituzionale negli articoli 25, comma secondo, e 13, comma secondo, della Costituzione (nonchè nell'articolo 7 della CEDU - Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, in quanto espressione del più ampio principio di legalità).
In proposito, la giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 364 del 1988 e n. 185 del 1992) ha chiarito che la (sufficiente) determinatezza della fattispecie penale è certamente funzionale tanto al principio della separazione dei poteri, quanto a quello della riserva di legge in materia penale (evitando che il giudice assuma un ruolo creativo nell'individuare il confine tra ciò che è lecito e ciò che non lo è), assicurando, al contempo, la libera determinazione individuale, perché consente al destinatario della norma penale di conoscere le conseguenze (giuridico-penali, appunto) del proprio agire.
Sulla base di tali premesse, tuttavia, non è stato ritenuto dal Giudice delle leggi incompatibile con il principio di determinatezza l'utilizzo, nella formula descrittiva dell'illecito penale, di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti "elastici" (Corte costituzionale, sentenze n. 247/1989, n. 34/1995, n. 5/2004 e n. 395/2005), ed è stata così negata l'indeterminatezza di talune fattispecie sottoposte al vaglio di legittimità costituzionale, in quanto ha ritenuto la Corte che competa all'interprete rendere certe e determinate quelle fattispecie che, in astratto, possono apparire prive di contorni sicuri e definiti (Corte costituzionale, sentenze n. 247/1997 e n. 69/1999).
Il compito della giurisprudenza, precisa la Cassazione, è (anche) quello di rendere concrete, calandole nella realtà fenomenica, previsioni legislative, non solo astratte, ma apparentemente indeterminate e ciò va fatto attraverso il richiamo al diritto vivente, che si manifesta nella interpretazione giurisprudenziale.
Sulla base di queste affermazioni, la Cassazione ha ritenuto applicabile il criterio del riferimento alle conoscenze condivise e alle (comuni) massime di esperienza, ivi comprese le grandezze numeriche, che hanno la peculiarità di esprimere - nella loro astrattezza - parametri valutativi generali e quindi generalmente applicabili.
I valori numerici, per tutto quel che si è detto, in quanto "misuratori di grandezza", costituiscono necessariamente l'oggetto dell'attività valutativa del giudice che sia chiamato a pronunziarsi sulla conformità di tali grandezze rispetto ad (elastici) parametri normativi, cui deve dare concretezza.
Non si tratta, aggiunge la Cassazione, di usurpare una funzione normativa, che ovviamente compete al solo legislatore, ma di compiere una operazione puramente ricognitiva, che, sulla base dei dati concretamente disponibili e avendo, appunto, quale metro e riferimento i dati tabellari (dati frutto di nozioni tossicologiche ed empiriche: cfr. Sez. 6, n. 27330 del 02/04/2008, Sejial, Rv. 240526), individui, sviluppando detti dati, una "soglia verso l'alto", al di sopra della quale possa essere ravvisata la aggravante di cui al comma 2 dell'articolo 80 d.P.R. n. 309/1990.