Gli artt. 2621 e 2622 del Codice Civile prevedono il reato di false comunicazioni sociali, che rappresenta il fulcro del diritto penale dell'economia, meglio noto come "falso in bilancio".
In passato e specialmente negli anni novanta la norma è stata oggetto di una vasta applicazione, a seguito dell'emersione di fatti di corruzione e concussione.
Gli articoli in questione per altro consentivano una applicazione così estesa in quanto erano formulati in termini molto vaghi che davano spazio ad interpretazioni allargate della norma. Con la riforma attuata con il D.lg. 61/2002 si è voluto ricondurre le dette norme al rispetto dei tradizionali principi penalistici, con particolare riferimento ai principi di tassatività ed offensività.
La riforma ha quindi introdotto, in luogo di un'unica ipotesi delittuosa (il vecchio art. 2621 c.c.), un'ipotesi contravvenzionale (attuale art. 2621 c.c.) e due ipotesi delittuose (art. 2622 c.c.). Il discrimen fra l'ipotesi contravvenzionale e quelle delittuose consiste nel fatto che la prima è un reato di pericolo, mentre le seconde si perfezionano solo se si realizza un danno patrimoniale a carico della società, dei soci o di terzi. La riforma ha il pregio di aver risolto diversi dubbi interpretativi, utilizzando una formulazione decisamente più semplice e chiara della precedente.
In primo luogo il legislatore ha previsto che la falsità sia commessa attraverso una delle comunicazione sociali previste dalla legge (bilanci, relazioni ecc.), non essendo sufficiente una qualsiasi comunicazione (es. orale).
La falsità consiste nell'esposizione di "fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni", oppure nell'omissione di "informazioni, la cui comunicazione è imposta dalla legge".
Al riguardo si precisa che la falsità penalmente rilevante non coincide necessariamente con l'invalidità in senso civilistico di una delle comunicazioni sociali sopra dette. Affinchè la falsificazione assuma una rilevanza penale, infatti, è necessario che essa abbia una idoneità offensiva per il patrimonio della società, dei soci o dei creditori.
Il legislatore ha quindi introdotto le cd. soglie di punibilità. Ai fini della sussistenza del reato è necessario cioè di realizzare un danno patrimoniale che superi il limite di cui al comma 3 dell'art. 2621 c.c. ed al comma 5 dell'art. 2622 c.c. Ciò in quanto il bene giuridico tutelato è, oltre alla pubblica fede, anche l'integrità patrimoniale dei destinatari dei suddetti atti, cosa che era in dubbio nel previgente ordinamento. Per anni infatti parte della giurisprudenza ha dato un'interpretazione estensiva dell'art. 2621, comma 1, n. 1 c.c., giungendo a sanzionare penalmente anche fatti di irrisoria rilevanza economica.
Ciò è coerente con lo spirito della riforma che ha voluto attuare i principi costituzionali di determinatezza e tassatività dell'illecito nonché i principi della sussidiarietà e dell'offensività. In altre parole il legislatore ha effettuato una attenta selezione dei beni giuridici penalmente rilevanti, incriminando sole le condotte realmente lesive di tali beni.
I soggetti attivi del reato possono essere gli amministratori, i direttori generali, i sindaci ed i liquidatori, identificabili secondo la disciplina civilistica. Tra essi non rientrano più i promotori e i soci fondatori perché tra le comunicazioni incriminabili non sono più previste quelle concernenti la costituzione della società, la cui falsità costituirà truffa o eventualmente falso in prospetto (art. 2623).
Altri soggetti attivi sono: "coloro che sono legalmente incaricati dall'autorità giudiziaria o dalla autorità pubblica di vigilanza di amministrare la società o i beni della stessa posseduti o gestiti per conto di terzi" ex art. 2639 c.c; coloro che svolgono funzioni d'amministrazione, direzione e controllo presso banche, anche se non costituite in forma societaria ex art. 135 T.U.B.; le persone che hanno la direzione dei consorzi con attività esterna ex art. 2615-bis c.c.; gli amministratori e i liquidatori del gruppo europeo d'interesse economico ex art. 13 d.lgs. n. 240/91. Nelle società di persone possono commettere il reato in questione i soci illimitatamente responsabili poiché essi, secondo le norme civili, sono amministratori della società salvo esclusioni da atto costitutivo o statuto. Il socio escluso che si ingerisce nell'amministrazione è loro equiparato, anche per ciò che concerne la responsabilità penale.
Ci si chiede se uno dei soggetti sopra indicati possa andare esente da responsabilità penale per il reato in questione delegando ad altri la redazione dei suddetti documenti.
Ciò non è possibile per quanto riguarda la redazione del bilancio che è un compito proprio degli amministratori e non delegabile.
E' invece possibile la delega per le altre comunicazioni, diverse da stato patrimoniale, conto economico e nota integrativa. Il delegante deve però ben specificare i criteri direttivi a cui dovrà attenersi il delegato. In caso contrario il delegante rimarrà responsabile del reato eventualmente commesso.
Va evidenziato che potranno essere chiamati a rispondere anche coloro che esercitano solo di fatto le funzioni sopra indicate, pur non rivestendo una formale qualifica.
Ciò è possibile in forza del novellato art. 2639 c.c., che introduce la figura dell'"amministratore di fatto".
Va evidenziato infine il nuovo regime di procedibilità.
Per la fattispecie delittuosa prevista dall'art. 2622 c.c. è necessaria la querela ai fini della procedibilità, salvo che si tratti di società quotate. Si procede invece d'ufficio per l'ipotesi contravvenzionale di cui all'art. 2621 c.c.
Certamente l'introduzione di soglie di punibilità e della perseguibilità a querela, nonché l'aver previsto il reato come contravvenzionale (con conseguente riduzione dei termini di prescrizione) e la necessità di un danno effettivo per i terzi restringono di molto il campo di applicazione della norma.