Come è noto, l'esdebitazione è quell'istituto che consente di rendere insegibili i debiti concorsuali, purchè ricorrano i presupposti di legge.
Alcuni debiti, però, sono esclusi dal beneficio dell'esdebitazione, per cui essi restano comunque esigibili.
Precisamente sono esclusi:
- gli obblighi di mantenimento e alimentari e comunque le obbligazioni derivanti da rapporti estranei all'esercizio dell'impresa;
- i debiti per il risarcimento dei danni da fatto illecito extracontrattuale nonché le sanzioni penali ed amministrative di carattere pecuniario che non siano accessorie a debiti estinti.
Sul punto, si è posta la questione se le obbligazioni tributarie siano o meno escluse dall'esdebitazione.
Il dubbio sorge in quanto non è chiaro il concetto di "rapporti estranei all'esercizio dell'impresa".
Debiti tributari: la questione dell'estraneità all'impresa
A giudizio dell'Amministrazione, le obbligazioni tributarie sarebbero "estranee all'esercizio dell’impresa" perchè collegate ad essa da un rapporto meramente occasionale, e quindi escluse dall'esdebitazione.
Il debito tributario, infatti, a detta dell'Amministrazione, non è assunto in ragione della qualità di imprenditore rivestita dal debitore né con finalità di impresa, poiché, all'evidenza, è un debito che grava su tutti i cittadini e la cui finalità è quella di concorrere alla spesa pubblica (secondo quanto espressamente sancito dall'articolo 53 della Costituzione). Il debito tributario, dunque, può sorgere "in occasione" dell'attività di impresa, ma non è un debito "inerente" all'attività di impresa.
Secondo la giurisprudenza, i debiti erariali quali IVA e IRAP sono soggetti ad esdebitazione, perchè inerenti all'impresa.
In tal senso si era già espressa la Cassazione con ordinanza del 30 ottobre 2014, n. 23129, secondo cui le obbligazioni tributarie non possono reputarsi estranee all'esercizio dell'impresa (specie con riguardo a IVA e IRAP) e pertanto non sono escluse dall'esdebitazione.
Ancora più esplicita è Cassazione, ordinanza 1 luglio 2015 n. 13542, che afferma: "sussistono indubbiamente oneri tributari (e piuttosto rilevanti) che sicuramente sono "derivanti da rapporti non estranei all'esercizio dell'impresa". Fra questi - sia detto per inciso - rientrano sicuramente IVA ed IRAP (che a quanto risulta dalla narrativa sono richieste dall'atto tributario impugnato) che sono dovute proprio e soltanto perchè le operazioni economiche da cui scaturiscono rappresentano esercizio dell'impresa".
E inoltre l'articolo 142 della Legge fallimentare non le prevede espressamente tra i debiti esclusi e tale norma non è suscettibile di applicazione analogica.
Il problema dell'IVA
L'IVA oggi viene inclusa tra i debiti che possono essere estinti per esdebitazione.
Si segnala comunque che sull'argomento era stata sollevata una questione di legittimità per contrasto con la normativa comunitaria.
Ci si chiedeva infatti se l'inderogabilità dell'IVA (affermata dalla Corte Costituzionale, sentenza del 25 luglio 2014, n. 225) possa cedere a fronte di un accertamento giudiziale di incapienza della procedura fallimentare, e di meritorietà dell'imprenditore fallito.
Va considerato che gli articoli 2 e 22 della sesta direttiva CEE e l'art. 4, paragrafo 3, TUE prevedono a carico di ogni Stato membro l'obbligo di adottare tutte le misure legislative e amministrative al fine di garantire che l'IVA sia interamente riscossa nel suo territorio.
In forza del sistema IVA come attualmente armonizzato, gli Stati membri sono infatti tenuti al controllo degli adempimenti a carico dei soggetti passivi, alla verifica delle dichiarazioni, della contabilità e di ogni altra documentazione rilevante, alla liquidazione dell'imposta dovuta e alla relativa riscossione (Concl. Avv. Gen. Sharpston nella causa C-132/06, Commissione c. Italia, p.68).
La sesta direttiva deve essere interpretata in conformità al principio di neutralità fiscale inerente al sistema comune dell'IVA, in base al quale gli operatori economici che effettuano le stesse operazioni non devono essere trattati diversamente in materia di riscossione dell'IVA.
Ogni azione degli Stati membri riguardante la riscossione dell'IVA deve rispettare questo principio (Corte giust., Commissione/Italia, causa C-132/06; Corte giust., 29 marzo 2012, causa C 500/10, Ufficio IVA di Piacenza).
Occorre allora verificare se la normativa interna si ponga o meno in contrasto con i principi comunitari risultanti dalla normativa UE come interpretata dalla Corte di Giustizia laddove includono nel beneficio della liberazione anche i debiti IVA.
La questione si palesa controversa in quanto l'esclusione del credito viene dalla legge riconosciuta al soggetto debitore non in via astratta, piuttosto derivando da una valutazione giudiziale operata dal Tribunale fallimentare in ordine alla prognosi che il soggetto beneficiario possa reimmettersi nel mercato produttivo.
Si prospetta, d'altra parte, la questione della compatibilità della disciplina anzidetta con le regole della concorrenza ponendosi detta disciplina, operante sulla base dei requisiti soggettivi già ricordati, come potenzialmente idonea a favorire il reinserimento dei soggetti ammessi al detto beneficio rispetto ai soggetti falliti che non possono godere di tale trattamento perchè esclusi ex lege dall'accesso a simile procedura.
E' stata chiesta pertanto alla Corte di fornire un'interpretazione autentica del diritto Ue in modo che questa Corte possa conseguentemente applicare i noti principi in tema di interpretazione comunitariamente conforme, ponendo il seguente quesito:
L'art. 4, paragrafo 3, TUE e gli artt. 2 e 22 della sesta direttiva 77/388, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari, devono essere interpretati nel senso che essi ostano all'applicazione, in materia di imposta sul valore aggiunto, di una disposizione nazionale che prevede l'estinzione dei debiti nascenti dall'IVA in favore dei soggetti ammessi alla procedura di esdebitazione disciplinata dal R.D. n. 267 del 1942, artt. 142 e 143.
La soluzione della Corte di Giustizia
La Corte di Giustizia si è pronunciata con sentenza del 16 marzo 2017, affermando che la disciplina dell'esdebitazione è conforme alla normativa comunitaria.
Ritiene infatti che gli Stati membri hanno l'obbligo di adottare tutte le misure legislative e amministrative atte a garantire il prelievo integrale dell’IVA nel loro territori e che, nell’ambito del sistema comune dell’IVA, devono garantire il rispetto degli obblighi a carico dei soggetti passivi, beneficiando di un’ampia libertà nei mezzi da utilizzare. Questa libertà, tuttavia, è limitata dall’obbligo di garantire una riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione e da quello di non creare differenze significative nel modo di trattare i contribuenti e questo sia all’interno di uno degli Stati membri che nell’insieme dei medesimi.
Tuttavia, le risorse proprio dell’Unione comprendono le entrate provenienti dall’applicazione di un’aliquota uniforme agli imponibili IVA armonizzati.
Dunque, qualsiasi lacuna nella riscossione del gettito IVA produce un deficit nelle stesse risorse dell’UE.
Dalla lettera della normativa nazionale applicabile, risulta che la procedura di esdebitazione di cui trattasi nel procedimento principale è assoggettata a condizioni di applicazione rigorose che offrono garanzie per quanto riguarda segnatamente la riscossione dei crediti IVA e che, tenuto conto di tali condizioni, essa non costituisce una rinuncia generale e indiscriminata alla riscossione dell’IVA e non è contraria all’obbligo degli Stati membri di garantire il prelievo integrale dell’IVA nel loro territorio nonché la riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione.
Inoltre, la Corte esclude che una procedura di esdebitazione così come disciplinata dalla legge fallimentare costituisca aiuto di Stato, per mancanza dei requisiti richiesti da una costante giurisprudenza europea.